Il cantautore Niccolò Agliardi ha presentato a Milano il suo ultimo lavoro, ‘Non vale tutto’ (Carosello Records), composto da undici brani inediti, tra cui un duetto con Elisa (Più musica e meno testo) e uno con Patrizia Laquidara (Qualcosa vicino all’amore). Dopo aver ottenuto popolarità, conducendo su Radio 2 il programma ‘Buenos Aires 14′ e pubblicando il romanzo ‘Ma la vita è un’altra cosa’, Agliardi è tornato alla musica con un album che richiama immagini, fotografie ed emozioni dei suoi viaggi in giro per l’Italia e per il mondo. Ecco cosa ci ha raccontato della sua ultima fatica.
Rumore di fondo è la prima canzone che hai scritto e anche quella che apre il tuo album ‘Non vale tutto’. Che significato ha per te?
Non è un caso che l’abbia scelta come brano di apertura. L’ho scritta in Brasile, in un periodo della mia vita in cui mi ero portato dietro dall’Italia pensieri che dovevo dimenticare. A un certo punto, scoppiò un forte temporale e smisi di ascoltare quel dolore. Il rumore di fondo che mi tormentava era sparito. Nelle mie canzoni ho parlato tanto di abbandono; questa volta si tratta dell’abbandono del dolore.
E Ai piedi dell’arcobaleno?
È una canzone sull’amicizia, perché io nonostante abbia forti dubbi sull’amore, non ne ho su questo sentimento. Ho carissimi amici che mi hanno accompagnato nel mio percorso e questa canzone la dedico a loro.
Spesso nelle tue canzoni avvicini l’amore a un sentimento di paura. Come mai?
Perché non ci capisco niente dell’amore. Mi ritengo una persona lucidamente tormentata e ancora oggi non sentimentalmente realizzata e risolta. Credo che esista l’amore perfetto, felice e sereno, ma allo stesso tempo che chi lo stia vivendo non ne scriva a proposito. In Perfetti racconto di due ragazzini maschi che scoprono di essere innamorati l’uno dell’altro: la loro è una storia difficile e sofferta, ma anche molto romantica e così bella che, affascinato, ho deciso di scattarne una fotografia.
I tuoi brani sono scritti di getto o nascono dopo lunghe riflessioni?
Penso che l’intuizione immediata sia una cosa che può accadere quando sei in tram, stai andando a dormire o sotto la doccia, ma la costruzione di una canzone richiede ore di impegno, strumenti di lavoro e concentrazione. Le mie canzoni, molto spesso, sono dei paesaggi fisici e mentali e il viaggiare mi permette di continuare a fotografare il paesaggio in moltissime angolazioni. È come il leggere: mi permette di prendere e mi permette di ridare, attraverso la scrittura.
L’ultimo giorno d’inverno è una bellissima fotografia di Milano. Che rapporto hai con la tua città?
Ho un rapporto di passionale diffidenza con Milano. Tuttavia, l’amo molto e per questo motivo ho scelto di viverci. Mi piace e mi piacciono le persone con cui la guardo.
Quali sono le differenze tra il tuo disco precedente e questo?
Sono tante. Tre anni fa vivevo un amore lacerato e non sapevo quale potesse essere la strada della guarigione. Ero una persona ambiziosa; avevo voglia di dire tutto e perciò alcune canzoni del mio precedente lavoro avevano addirittura sei anni. Ma amo quel disco. ‘Non vale tutto’ è un po’ più essenziale a livello di suoni, più asciutto e più schietto. Magari non è immediatissimo ma io non sono uno ‘mediale’ nel senso mogoliano del termine, ma mi vedo più come un rappresentante della scuola trans-mediale, quella di De Gregori, dove un significato ne ha anche altri tre sotto. Infatti, penso che tutte le mie canzoni possano essere lette ed interpretate in modi diversi e, per questo, mi piacerebbe molto che la gente le riascoltasse più volte.
Fin dall’infanzia ti sei avvicinato ad artisti come Vecchioni, De Gregori e Fossati. Ti sei laureato con una tesi sui luoghi reali ed immaginari presenti nei testi di Francesco De Gregori. Che ruolo hanno avuto questi artisti? Hanno influenzato il tuo lavoro?
Ritengo di aver ricevuto da questi artisti dei regali. Da tutti loro sono rimasto affascinato e ho costruito intorno alla loro figura un’impalcatura personale. Certamente mi sono creato dei miti e ho corso questo rischio. Le loro canzoni hanno strutturato la mia vita. Avevo solo sette anni quando ascoltai per la prima volta Generale di De Gregori e inizialmente non lo capivo, come non avevo capito Samarcanda di Vecchioni, che mi accompagnò in un momento delicato della mia vita.
Hai condotto su Radio 2 ‘Buenos Aires 14′. Che cos’è per te la radio e che ruolo ha nella tua vita? La radio è una mia fortissima passione, che mi ha insegnato a governare il silenzio e ad ascoltare molto le storie degli altri, nonché ad usare le parole a servizio di un’utenza e ad essere anche molto conciso.
Da cantautore, qual è la tua posizione nei confronti dei talent show? Faccio il cantautore e per me comunicare significa aver qualcosa da dire, trovare il modo di dirlo e sperare che qualcuno lo colga. Non sono né favorevole, né contrario ai talent, però mi piacerebbe ci fosse un talent delle canzoni e non delle voci, perché questi programmi televisivi innalzano soltanto alcune capacità vocali e nient’altro. Per questo sono lontani dal mio modo di vivere la canzone. Forse in Italia si è propensi a farsi affascinare dalle voci, però se si desse importanza maggiore alle canzoni in tv, li vedrei volentieri. I talent di oggi si potrebbero definire come i ‘talent del muscolo più lucido’.
Articolo su: NewsMag.it
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